(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 23 aprile 2023)

ll lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 2^ domenica dopo Pasqua - Misericordias Domini (La terra è piena della misericordia del Signore - Salmo 33,5) un brano tratto dalla 1^ lettera di Pietro e precisamente 1^ Pietro 5, 1-4.

Come al solito proviamo a fare una breve introduzione di questa lettera particolarmente amata da Lutero, tanto da considerarla, insieme al Vangelo di Giovanni e alle lettere paoline, “il vero nucleo e il midollo fra tutti i libri che giustamente dovrebbero essere i primi”. In un suo commento del 1523 la definì “uno dei più nobili libri del Nuovo Testamento e l’Evangelion autenticamente sincero”. 

Insieme alla lettera di Giacomo, alla seconda Pietro, alle tre lettere di Giovanni e a quella di Giuda, la 1^ Pietro fa parte delle cosiddette lettere “cattoliche”. Qui per cattoliche intendiamo testi che hanno un riferimento e un contenuto universale, ossia che non sono rivolte ad una comunità particolare e che non sono state scritte per risolvere problemi specifici di quella comunità, come le lettere paoline che poi sono comunque diventate testi di riferimento fondamentali, per la testimonianza dell’evangelo e per tutte le chiese. 

La lettera è stata scritta in un contesto in cui erano già in atto delle persecuzioni o, comunque, in cui se ne  avvertiva il pericolo. Anche se qualcuno ha pensato che sia una sorta di liturgia battesimale, in effetti è una esortazione a rimanere radicati nella fede e nella fedeltà a Cristo, a non scoraggiarsi anche nei momenti di massimo  pericolo per le proprie vite e per quella delle comunità.

Il saluto della chiesa “che è in Babilonia”, del versetto 13 dello stesso capitolo 5 è una chiara allusione a Roma e al suo potere, anche alle persecuzioni.

L’autore è davvero Pietro, ossia Simone, l’apostolo? Non ne siamo sicuri sia per l’epoca incerta di compilazione della lettera, sia per lo stile con la quale è stata scritta, tanto linguistico (un raffinatissimo greco), quanto teologico (con evidenti punti di contatto con gli scritti paolini). Questi due elementi fanno prevalere la tesi che si tratti di un caso di pseudoepigrafia, ossia di un scritto che un autore, o un gruppo di discepoli, ha intestato ad un personaggio riconosciuto e apprezzato da diverse comunità (quale sicuramente doveva essere Pietro) per conferirgli maggiore autorevolezza. Non dobbiamo scandalizzarci di questo espediente, perché nell’antichità era una pratica molto diffusa e serviva non solo ad attribuire prestigio alla composizione, ma anche ad esplicitare meglio e  attualizzare il pensiero del maestro.

Nei quattro versetti del nostro testo, l’autore della lettera si rivolge agli anziani di alcune comunità dell’Asia Minore. 

Ma chi erano questi anziani? Non erano certo le persone più in là negli anni, ma fratelli (dai, se pure pochi, riferimenti degli atti degli apostoli e delle lettere di Paolo, nelle quali viene esplicitamente utilizzato nei confronti di alcune donne il termine greco che tradotto correttamente significa “diaconesse”, possiamo sicuramente parlare anche di sorelle) a cui era stato assegnato un ministero, una responsabilità nell’ambito della comunità di fede.

Gli anziani avevano il compito di pascere, di condurre il gregge di Dio, ossia i credenti e le credenti. L’autore della Lettera li chiama a farlo sentendosi partecipi delle sofferenze di Cristo e proprio per questa partecipazione sono esortati a schivare i percoli insiti in qualsiasi posizione di potere che, anche all’interno della chiesa, rischia di deviare, o addirittura di corrompere, il mandato ricevuto.

L’unione con Cristo rigetta ogni tipo di obbligo, tutto deve essere compiuto volenterosamente, senza approfittarne dal punto di vista economico (non arricchirsi a spese degli altri), con umiltà e senza abusi (potremmo dire di potere) che potrebbero indurre alla tentazione di disporre a proprio piacimento degli altri e delle altre. 

Gli anziani sono a chiamati a comportarsi come persone che servono la comunità e non come coloro che si servono della comunità.

La parola servizio ha un significato chiaro, abbastanza semplice, ma è talmente abusato che rischia di assumere purtroppo una connotazione non sempre positiva.

Quante volte abbiamo ascoltato, e ascoltiamo politici, e non, con le loro rassicurazioni sul desiderio di porsi solo al servizio della comunità, ma invece, dietro questa frase retorica, nascondono un intento, se non truffaldino, quanto meno di approfittamento personale e di gestione di un potere fine solo a se stesso, talvolta disumano.

Questa malattia può riguardare però non solo i politici, ma è in grado di infettare ogni ambito della società, dalla bocciofila alla più grande associazione di volontariato. Quando si raggiungono piccole e grandi posizioni di potere si rischia sempre di smarrire i fini e di considerare la cosa più importante i mezzi, che sono solo quelli poi ritenuti utili a perpetuare il proprio potere e la propria ricchezza.

L’autore della 1^ Pietro aveva ben chiaro in mente tutto ciò e sapeva che una tale possibile infezione rappresentava il più grave pericolo per gli stessi anziani, le anziane e per tutta la comunità: il pericolo di non agire secondo Dio.

E’ vero che le chiese sono comunità di fede, ma sono pure comunità di donne e di uomini con tutti i loro pregi e i loro difetti, che possono porsi in atteggiamento di autentico servizio ma anche in quello di un potere esclusivo e addirittura escludente. 

Una cosa bisognerebbe sempre tenere presente: che in mezzo a noi deve regnare Cristo e non altro.

“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18,20). Se Cristo è in mezzo alla comunità dei  credenti e delle credenti, allora la stessa comunità deve essere lo specchio di Cristo, la sua immagine.

Non dobbiamo neanche pensare che il pensiero di questi versetti della 1^ Pietro sia rivolto solo agli anziani come persone formalmente investite di un compito preciso. No, questi versetti sono rivolti ad ognuno e ognuna di noi. 

Nelle chiese protestanti, il principio del sacerdozio universale dei credenti ci rivela che tutte e tutti siamo chiamate e chiamati a svolgere un ruolo, un ministero a beneficio dell’intera comunità. Nessuna e nessuno può e deve tirarsi indietro. 

Abbiamo carismi diversi, abilità particolari ma siamo tutte e tutti membra del corpo di Cristo e come tali dobbiamo sentire la vocazione ad edificare la chiesa, proprio come ogni membro è al servizio del corpo nel suo insieme. Non è possibile, né immaginabile che un membro del corpo agisca a solo suo esclusivo vantaggio penalizzando le altre membra. Il corpo ne uscirebbe deformato e non più in grado di continuare a vivere ed a essere felice. 

Essere felici, così ci desidera il Signore. Provare a raggiungere questa felicità è un obiettivo da porci. Gesù, con la sua vita morte e resurrezione ci ha manifestato il Regno di Dio e noi, nell’attesa del Suo definitivo ritorno, possiamo favorire l’avverarsi delle condizioni per gustare, qui e ora, un anticipo di quel che sarà.

Dio non ci vuole tristi, imprigionati e asfittici nelle nostre paure, nelle nostre invidie, nelle nostre gelosie, ma ci chiama alla libertà, alla gioia e una comunità può essere libera e gioiosa solo se tutti e tutte cooperano a questa libertà e alla gioia. 

La mia libertà, la mia gioia, la mia felicità non possono essere a scapito della libertà, della gioia, della felicità della sorella e del fratello. Cosa ne ricaverei? Alla fine, probabilmente solo un enorme senso di frustrazione, e soprattuto potrei dire di essere libero, gioioso e felice in Cristo Gesù? Ingannerei solo me stesso.

Nei versetti del nostro testo, l’autore della Lettera in pratica ci dice come dobbiamo comportarci con le sorelle e i fratelli spiegandocelo partendo dal negativo: “non per obbligo, ma volenterosamente”, “non per vile guadagno, ma di buon animo”, “non come dominatori di quelli che ci sono affidati, ma come esempi del gregge”.

Se desideriamo però trovare, al positivo, il modello di comportamento suggerito, dobbiamo fare un piccolo passo indietro nella Lettera al versetto 2,21 dove leggiamo “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”.

Le sofferenze di Cristo sono il nostro esempio. Non dobbiamo però pensare che Gesù ci vuole sofferenti e che dobbiamo crogiolarci nelle nostre sofferenze, non dobbiamo credere che quanto più soffriamo, tanto più siamo salvati. Dobbiamo è vero restare perseveranti anche nelle tribolazioni, perché Cristo ce ne lasciò l’esempio, ma la luce che proviene da Gesù, se guardiamo sempre a Lui, può illuminare la nostra vita rendendola felice.

Gesù ha sofferto non per la sua volontà, ma per l’incomprensione degli uomini, per il tradimento dei suoi discepoli, a causa dell’invidia e della violenza.

La vita di Gesù è stata bella, ha camminato e predicato per le vie della Palestina, ha guarito, ha mangiato e bevuto come tutte e tutti noi, magari quante risate si sarà fatto (anche se i vangeli non ce lo raccontano), certamente aveva un grande senso dell’ironia, ma soprattutto ha amato. 

La teologia del dolore non ci libera, ma ci costringe ad altro dolore. Ciò che ci libera è la teologia dell’amore incondizionato.

Nella sua predicazione, Gesù si è paragonato tante volte al buon pastore che pasce (come si esprime l’autore della nostra Lettera) il gregge.

Gli uomini e le donne che Gesù ha incontrato vivevano in un ambiente prevalentemente composto da agricoltori e allevatori. Parlava del gregge perché chi ascoltava potesse capirlo.

Il gregge di Gesù non è quindi un’entità confusa, anonima che risponde a bacchetta, che può essere condotta con qualsiasi comando, ma sono le persone nella loro individualità specifica e nella loro autonomia che possono dire di si e dire di no (e quante volte Gesù si è visto respingere il suo messaggio, quante volte è stato lui stesso riluttante anche di fronte agli immediati entusiasmi, avvertendo delle conseguenza della sequela?).

Il buon pastore di Gesù, è il buon pastore della libertà e della dignità, della vita di ognuna e ognuno, non costringe ma lascia sempre la libertà della scelta. Una cosa sola non fa il buon pastore di Gesù: abbandonare il gregge.

“11.Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. 12.Il mercenario, che non è pastore, e al quale non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), 13 perché è mercenario e non si cura delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, 15 come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore. Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. 18 Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest'ordine ho ricevuto dal Padre mio». (Giovanni 10,11-18).

Il buon pastore conosce tutte le pecore una ad una ed è disposto a dare la vita per esse. Ed è disposto a darla anche quando vede venire il lupo, nell’incomprensione, nel rifiuto, nella condanna degli uomini. Anzi proprio quando vede venire il lupo, nell’incomprensione, nel rifiuto, nella condanna degli uomini, il buon pastore manifesta la sua fedeltà nella libertà. 

Il mercenario invece scappa perché non ha cura di ciò che gli viene affidato, perché cerca solo il proprio tornaconto, perché non ha l’amore che ha il buon pastore per il quale anche il perdere una sola pecora è drammatico e non si da pace finché l’abbia ritrovata.

“1 Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. 2 Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? 5 E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; 6 e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". 7 Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.” (Luca, 15-1-7).

Siamo dunque messi di fronte alla follia del Signore. Il buon pastore è folle d’amore, ma la sua follia è divina. Quale pastore, razionalmente, lascerebbe novantanove pecore nel deserto per andare a ritrovare l’unica perduta?

Eppure l’amore del buon pastore è esorbitante, è fuori da ogni comprensione umana. Corre il rischio, non fa calcoli, dà tutto se stesso per non lasciare nessuna e nessuno indietro. 

E poi il buon pastore è allegro del suo ritrovamento, non rimprovera la pecora perduta (come il padre non rimprovera il figlio che si era perduto, nella celebre parabola del figliol prodigo), ma la accoglie nuovamente nel gregge, la rimette nel circolo della speranza e della vita.

Così anche noi dobbiamo essere allegri e allegre quando siamo ritrovate e ritrovati, così come quando siamo noi a ritrovare fratelli e sorelle. La dimensione della cura è proprio l’allegrezza, non la tristezza, non il rimprovero e il rancore.

La figura del buon pastore la ritroviamo anche nel salmo 23, che è uno dei salmi più belli, che da serenità e allo stesso tempo forza, che ci consola e ci apre alla luce della gloria del Signore, anche quando ci sembra che le tenebre sono fitte e impenetrabili. Lo ripercorriamo insieme perché è inebriante, e ci da la non misura dell’amore di Dio.

1 Salmo di Davide.
Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l'anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m'accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni.

Il salmo 23 ci fa respirare a pieni polmoni e nello stesso tempo ce lo toglie il respiro tanto è tracimante di amore, un amore che non dobbiamo solo egoisticamente prendere, con l’intento di custodirlo gelosamente, ma metterlo in circolo, trafficarlo, moltiplicarlo, diffonderlo nelle nostre comunità e anche fuori dalle nostre comunità, proprio come nel discorso del buon pastore dell’Evangelo di Giovanni che abbiamo letto.

La dimensione immensa di questo amore e di questa gioia sta nel comando che Gesù da a Pietro sul mare (lago) di Tiberiade, dopo essere risorto:

“15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle.” (Giovanni 21,15-17).

Il comando che Gesù rivolge a Pietro, di pascere le sue pecorelle è un comando che dipende dalla decisione di quest’ultimo di amarlo. Gesù glielo chiede per tre volte se lo ama. Pietro risponde sempre di si e così è anche perdonato del rinnegamento della notte dell’arresto. E’ una domanda, un comando che interrogano ciascuno e ciascuna di noi uno ad uno, una ad una.

Se decidiamo, se scegliamo di amare Gesù siamo anche chiamati a pascere i fratelli e le sorelle, a pascerci vicendevolmente.

Amen

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